Pina Tavani presenta il suo libro di poesie "Anelito all'Assoluto" e ne fa dono di una copia a tutti i presenti.
"Poesia" viene dal greco "poiein" e significa "fare" e, quindi, avere l'opportunità di mettere sul piano dell'azione ciò che si elabora su quello mentale.
Se c'è dissociazione tra quello che si pensa e quello che si fa, la persona sta in atteggiamento diabolico (spaccato). Se, invece, riesce ad armonizzare ciò che pensa con ciò che fa, conferisce, dentro di sé, un senso all'esistenza.
Il senso è la convergenza dei significati. E' la finalizzazione della persona. E' il recupero dell'antropologia come tendenza al raggiungimento della felicità, unico valore non negoziabile.
Però, di questo, spesso ce ne dimentichiamo al punto tale da usare la felicità come parola augurale nelle grandi circostanze. Invece, la felicità va vissuta nella quotidianità. Se non c'è la predisposizione a questo, la felicità perde senso.
Pina ci offre la raccolta dei suoi scritti. Bisogna tener presente che gli scritti sono quelli che restano fissi, ma derivano da una dinamica più o meno lunga per cui sono la condensazione di ciò che si è elaborato. Se non c'è questo condensato, le parole scritte possono essere solo un'accozzaglia di segni senza senso.
Lo scritto derivato da una profonda meditazione, soprattutto se è frutto di un'esperienza personale, va a confluire nel detto antico: "Timeo lectorem unius libri" ("Ho paura del lettore di un unico libro"), perché se uno legge bene un solo libro, lo "intellegge", cioè va nella profondità della parola, nella profondità della persona.
Lo stile, poi, è manifestativo della persona, è un derivato. Una raccolta di poesie sono il "fare" dell'essere di una persona, ma quest'essere comincia nella dinamica interpersonale, interpsichica e poi epifenomenica. Prima, cioè, la persona deve avere l'opportunità di entrare nella profondità di se stessa, nelle grotte dell'inconscio, del subconscio e del conscio, per poter poi avere un'espressione adeguata in quanto maturazione del contenuto unico e irrepetibile della persona stessa.
Ciò significa che, senza sminuire lo scritto di Pina, dobbiamo cogliere l'invito a poter essere produttori ed editori di ciò che nella profondità del nostro essere viene elaborato a seconda delle esperienze che ogni giorno ci vengono presentate.
Questa è un'opportunità che ci chiede: "Che hai scritto in tutta la tua vita?", "Dovevi solo scrivere o dovevi maturare prima le parole?".
Se pensate che il nostro cervello fa circa tre trilioni di operazioni in un giorno, ci rendiamo conto che il tesoro nascosto in noi è veramente ricco. Dovremmo essere capaci di dire noi stessi, di metterci alla luce, di "partorirci" per fare in modo che nell'altro insorga l'immagine che noi abbiamo di noi. Ma nel momento in cui questo avviene, nell'altro si verifica il parto di una realtà simile all'infinito divino.
Per questo motivo, la comunicazione resta sempre un mistero perché l'uomo, nella sua realtà, resta nella solitudine dell'incomunicabilità e allora, quando si sforza di dire, offre all'altro l'opportunità di generare, nella sua soggettività, l'immagine che gli viene prodotta, ma questa non sarà mai adeguata a quella che il comunicatore determina. In effetti, è la persona che riceve quella che compone l'immagine dentro di sé e, nel fare questo, diventa attivatrice, a sua volta, di una realtà senza fine. Dal punto di vista scientifico, infatti, c'è da mettere in risalto come la conoscenza sia permanentemente una generazione, cioè un'avventura verso il nuovo.
Perciò fa paura comunicare. Preferiamo di più fare bla, bla, bla senza comunicare niente e vogliamo sentirci dire quello che già sappiamo perché se uno ci dice ciò che non conosciamo, ci trasferisce su un campo inesplorato e inesplorabile. Ecco perché questo parto avviene sempre con le doglie.
Ho preso lo spunto da Pina per fare una... poesia collettiva perché è necessario entrare nella dinamica relazionale. Noi meridionali dobbiamo fare un po' di sforzo in più per entrare in relazione. I popoli nordici sono più abituati ad ascoltarsi nella reciprocità. Noi, invece, siamo abituati alla sopraffazione. Si parla mentre un altro sta parlando mettendosi in una posizione competitiva.
Ci sono molti tipi di comunicazione oltre a quella competitiva: c'è quella aggressiva, quella passiva, quella assertiva, ma quella che più ci interessa è la prosociale perché consente all'altro di avere il tempo di conoscersi, prodursi e pronunciarsi accogliendo le sfumature della propria esperienza che è un parto.
Quando pensiamo di offrire all'altro l'opportunità di cogliere la nostra mente proprio mentre parliamo? Se parliamo veramente, allora noi generiamo la nostra realtà nel dinamismo attuativo dell'esser persona, ma se ripetiamo ciò che abbiamo già elaborato, in effetti non parliamo.
Finora ho parlato. Ora vi leggo una mezza pagina e vi invito a notare la differenza tra il parlare "ex corde", che viene dal cuore e il parlare leggendo:
"Se da un lato ciascuno, dunque anche gli scienziati, può credere in quel che vuole - credenze che sono libere finché però non nocciono agli altri - dall'altro, chi lavora nel campo della scienza non dovrebbe permettere che la sua eventuale fede interferisca con la sua ricerca. Peraltro al contrario di quel che di solito si sostiene, scienza e tecnologia sono riuscite a realizzare, seppur con non poche contorsioni, una profonda unità spirituale, ben superiore a quella tentata senza successo da troppi folli di Dio".
Giulio Giorello
Emergono alcuni elementi: ci sono i "folli di Dio" che pretendono di produrre nelle menti delle persone l'immagine di Dio che loro hanno acquisito, ma questa immagine non è la stessa che è presente nella mente della persona vivente che, in quanto tale, è molto più vicina al Vivente di qualsiasi definizione si possa dare di esso.
Più semplicemente: il vivente, in quanto tale, non può non essere... vivente e, quindi, in movimento e se è in movimento, non è definibile, perché la definizione è fissa. Dunque, se si fissa il vivente, lo si uccide.
Se la persona è già morente non ha nessuna possibilità di incontrare il Vivente. Il che significa che solamente se ciascuno di noi, scienziato o non, è aperto al nuovo, al generativo, si mette in relazione con il Vivente che è in generazione permanente.
Nel momento in cui io lo trascino nell'immobilismo della fissità, io tolgo al vivente la sua caratteristica fondamentale.
Adesso provate a fare un collegamento: laddove la religione si mette in questa posizione di fissità, si contrappone ad ogni movimento scientifico. Allo stesso modo, se la scienza assume un atteggiamento di pregiudizio, non ha nessuna possibilità di fare... scienza.
Allora, sia l'uomo di fede che lo scienziato, se vogliono essere vicini, come minimo comune denominatore, devono sposare la via del Vivente.
Oggi di non viventi ce ne sono tanti. Già Diogene andava in giro con una lanterna cercando l'uomo.
Gesù dice: "Io sono la vita". Per questo motivo, si può incontrare solamente con quelli che fanno parte della vita. Quelli che non vi entrano a farne parte stanno su un campo che non è quello di Gesù il quale disse: "Consummatum est", cioè: "Ora sono finalmente io perché salendo sulla croce, sono entrato nella dimensione della vita aperta".
Se rileggiamo il Vangelo di Giovanni, ci rendiamo conto che abbiamo molte cose da metabolizzare per cogliere certi aspetti essenziali. Tutto ciò che è immobilismo non è vitale. L'amore per prescrizione non ha senso, anzi è l'opposto dell'amore.
Siamo in una condizione in cui la dimensione autentica non ci è arrivata fino in fondo. Noi abbiamo gli schemi entro cui vogliamo conficcare il nostro elaborato, ma non ci facciamo sorprendere dal messaggio che ci apre alla dimensione del nuovo, del vitale. E allora vediamo che c'è un'interferenza religiosa nello scientifico, cioè le scienze subiscono il modello religioso, e c'è un'interferenza delle scienze nel campo religioso, nella speranza che religione e scienze aprano il percorso della fede che è sciolta dalle "re" e "ri" (prefissi iterativi che indicano ripetizione).
Invece, l'apertura è la sorpresa, è l'impensabile pensato, cioè la possibilità di procedere nella fede è... l'eresia.
Gesù è segno di contraddizione. Se uno vuole incontrarsi con Gesù deve avere la possibilità di trovare la sua via per esprimere per quel che è il suo essere vivente.
L'uomo di fede e lo scienziato sono entrambi evolutori. Lo scienziato è il profeta del futuro se è profondamente scienziato perché non può non trovarsi nella dimensione della ricerca attiva, aperta, generativa. Se si pone delle preclusioni non è più uno scienziato perché questi ricerca, fa le verifiche in quanto è aperto alla verità e la verità è dinamica.
Le cose che stiamo dicendo appartengono al vissuto della quotidianità. Ciascuno di noi vive questi misteri. Noi abbiamo problemi di comunicazione ed allora ci rifugiamo nella rassicurazione del fenomeno religioso - dogmatico dove non si deve pensare, non ci si deve mettere in discussione. Quindi, ci sentiamo sicuri.
Domenica a Messa, ho detto: "Io enuncio gli articoli del Credo perché ciascuno vi aderisca secondo la propria fede". Però quest'apertura per molti non è possibile anche se la verità è questa: ognuno entra in chiesa con una propria fede, non fa prima l'esame esegetico per vedere che cosa ha in testa.
Ricordate che esiste la verità dell'eresia pensata e l'eresia della verità inculcata. Quando una verità è inculcata, diventa una violenza sulla persona. Se invece la persona viene lasciata nella sua creatività, incontra il Creatore molto più da vicino...
Però, se noi vogliamo fare le schermaglie dogmatiche irrigidendoci nelle nostre posizioni artefatte, facciamo le guerre di religione.
L'arte è la salvezza della fede perché è fondata sulla creatività. L'uomo naturale è artista. La naturalità è creatività perché la natura è "nascitura". Se è nascitura vuol dire che non è ancora nata e, quindi, non può essere definita. Se io do spazio alla mia naturalità, mi evolvo; se, invece, mi vado ad anchilosare in un modello prefabbricato, io impedisco la mia crescita e quella degli altri.
Come capire chi dice (Aldo Masullo) che dopo la morte c'è il vuoto assoluto?
Ognuno ha una sua visione di fede. Masullo la vede così, un altro in un modo diverso e così via... Questo dà la possibilità alla gamma delle manifestazioni. Però, quando dice "vuoto assoluto", senza accorgersene, cade in contraddizione perché l'assoluto è sciolto da ogni legame. Allora, il vuoto non può essere definito "assoluto". Si dovrebbe fare tutto il discorso sul vuoto...
Ritornando a noi: pensate che ci conosciamo? Probabilmente abbiamo l'esigenza di conoscerci perché conoscendo gli altri, abbiamo anche qualche approccio più approfondito verso di noi. Questo non vuol dire strumentalizzare l'altro per me, ma posso fruire della relazione con l'altro così come l'altro può fruire della relazione con me per avere entrambi un miglioramento del nostro essere. E questo fa bene a tutti. "Miglioramento" significa realizzazione del nostro essere viventi.
La vita, quanto più è vissuta intensamente, tanto più è fruita dal soggetto vivente. Io posso anche vivere senza esistere (come abbiamo visto in un incontro precedente) perché l'esistere vuol dire che io dal di fuori mi colgo, mi accolgo e mi promuovo. Questa è una dimensione che comporta l'intervento altamente personale della crescita perché l'indottrinamento è molto più facile e la catechizzazione è molto più vicina all'istituzione che è statica. La persona che subisce un indottrinamento chiuso in un programma resta nell'immobilismo. L'apertura del vivente con contempla i programmi.
Ci sono tra voi persone che seguono questi incontri da diversi decenni, ma ogni anno c'è sempre qualcosa di nuovo da apprendere. Anche S. Pietro ad un certo punto della sua vita già avanzata disse: "Sto rendendomi conto..." (At. 10,34).
L'incontro con il Vivente è sempre una realtà sfuggente, perciò è meravigliosa. Dio a Mosè si presentò come: "Io sono Colui che sono" (Es. 3,14). In questa espressione è eliminato il predicato. "Io sono" indica solamente l'onticità e non la modalità dell'essere. Noi, invece, ci riferiamo prevalentemente alla modalità. Chiediamo: "Che fai?" e non: "Chi sei?" perché non sappiamo chi siamo e diciamo: "Io sono professore, io sono musicista, ecc.". Dio si presenta con "Io sono", il che significa che tu devi toccare nella tua profondità, l'essenzialità del tuo essere senza mettere alcuna etichetta. L'essenzialità è l'essere che è capace di multiformi attuazioni.
La multiformità dell'essere è esattamente la dinamicità. "Voi farete cose più grandi di me" (Gv.14-12).
In antropologia, per esempio, a proposito della donna, si dice: "La donna è ciòchesarà" (tutto attaccato), cioè ciò che sarà nel suo movimento ontico, nella sua dinamicità.