Una psiche precaria
Scritto da Dr. Maurizio Capezzuto |
Nello svolgersi del racconto, diventa sempre più palpabile un senso di disagio che permette al lettore di identificarsi con la condizione di precarietà vissuta da Rico. Prendendo come punto di partenza questo racconto, non voglio dire che un uomo che svolge il lavoro da impiegato (il cosiddetto posto fisso) sia più sereno di un libero professionista e viceversa. Quello che mi interessa evidenziare è come questa nuova concezione del lavoro incida sulla nostra psiche. Non serve oltrepassare i confini del nostro paese per rendersi conto di questi cambiamenti. Nell’ Italia del dopoguerra le persone che lavoravano nella Fiat, per esempio, non erano semplicemente operai che lavoravano alle dipendenze della famiglia Agnelli. Essi erano persone che contribuivano alla rinascita, oltre che della loro famiglia, anche dell’Italia. Erano orgogliosi di lavorare nella Fiat, ( così come in altre centinaia di aziende in Italia) e le ore trascorse ad avvitare bulloni, non erano solo un mero lavoro stereotipato. In quella routine vi era molto di più. Vi era l’idea di dare dignità alle ore impiegate in quell’azienda. In quelle ore l’Io non si annullava perché era parte attiva di un progetto molto più ambizioso. In quelle ore la persona non aveva la sensazione di essere un oggetto che ha come suo unico obiettivo, quello di accumulare altri oggetti. Era l’individuo a definire se stesso e l’oggetto non aveva il potere di fornire l’identità, ma restava semplicemente ciò che è: uno strumento capace di semplificare la vita (a condizione di essere usato bene!). Quando la persona è artefice della propria vita, si può sentire soddisfatta, anzi, orgogliosa. La possibilità di costruirsi una storia permette all’individuo di “seguire un filo” e dunque di dare coerenza e continuità alla propria vita, in altre parole, di darle un senso. Purtroppo il concetto attuale di lavoro limita di gran lunga questo processo. I mass media, i nostri politici, i nostri amministratori hanno ben presente il danno che hanno generato ma, come in un circolo vizioso degno della più cronica delle psicopatologie, non fanno altro che negare e per deresponsabilizzarsi mistificano la realtà. Ed ecco che appaiono in TV persone cosiddette “vincenti” che dicono di essere riuscite a raggiungere i propri obiettivi, di essersi realizzate; e tu, che sei dall’altra parte, pensi di essere un inetto, che è solo tua la colpa del tuo stato, che sei il solo responsabile, che sbagli il percorso, la direzione, la velocità se rincorri obiettivi mobili, che si rimpiccioliscono perché sempre più lontani. Nella realtà attuale, si assiste inoltre ad un fenomeno paradossale: vengono scambiati per primari quelli che sono bisogni secondari e viceversa. Diventa primario cambiarsi l’auto perché non è l’ultimo modello sul mercato e secondario costruire relazioni significative o diventare autonomi rispetto alla propria famiglia d’origine. In questo modo, la persona confonde i significati e i livelli: il senso del Sé diventa il senso delle cose e le responsabilità sociali diventano fallimenti personali. Con questo non voglio sollecitare, né giustificare un atteggiamento passivo nei confronti della vita, ma ci tengo ad evidenziare che il modo di intendere il lavoro influenza la nostra psiche. Già nel 1800, Marx sosteneva che il lavoro è ciò che caratterizza l’uomo “particolarmente”. Attraverso il lavoro, l’uomo migliora le proprie condizioni di vita materiale; in esso, l’uomo riflette tutto se stesso, ciò che pensa, ciò che sente. Attraverso il lavoro, l’uomo ribalta il rapporto con la natura, la trasforma, la piega ai suoi scopi. Nell’era capitalistica però, Marx vede il lavoro “esterno” all’operaio, lo rende insoddisfatto, infelice, sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Esso non è più il soddisfacimento di un bisogno, ma un mezzo per soddisfare bisogni estranei. Nel processo di costruzione dell’identità è molto importante il concetto di “base sicura” che corrisponde alla presenza di una figura significativa capace di rendere il bambino sicuro e in grado di esplorare il mondo proprio grazie alla consapevolezza di questo faro che lo guida e al quale può affidarsi. Per analogia, la condizione precaria in ambito lavorativo, non consente l’acquisizione di un senso di sicurezza che permette l’esplorazione: una persona che ha una condizione lavorativa precaria potrà difficilmente acquisire una progettualità di vita, compresa quella relazionale. Costretto in questa situazione, non potendo soddisfare i bisogni primari ( l’autonomia, la scoperta, la progettualità, l’affettività), l’uomo corre il rischio di rimpiazzare questi bisogni con altri, più immediati e meno impegnativi, ma che rendono più evanescente l’idea di Sé, più massificata. La massa ingoia l’individuo e ne fa dimenticare le peculiarità, dunque identità perde i suoi confini e diventa sempre più sfumata e indefinibile. La precarietà lavorativa è come il Re Mida, ma con risultati ben diversi: il primo trasformava in oro tutto ciò che toccava, la seconda rende tutto precario, anche l’identità.
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